martedì 20 novembre 2007

Brodini proporzionali

Pubblico un interessante intervista a Bertinotti sul momento politico strettamente attuale.


Importanti spunti di riflessione ed un'inquietante promessa di somministrazione di brodini...






«Berlusconi rivela la sua forza. Per il Pd rischio di un populismo dolce»
«Si torni subito al proporzionale»
Il presidente della Camera, Fausto Bertinotti: ora il sistema tedesco è più forte. «Un De Gaulle non è nelle nostre corde»



ROMA — Ancora una volta il Cavaliere riesce a spiazzare tutti?
«Ancora una volta rivela la sua forza trasformando una cocente sconfitta in un'opportunità. È la mossa di un surfista che sta sull'onda e compie un'acrobazia. Nella crisi della politica, Berlusconi capisce che abbiamo alle spalle la pars destruens, che è iniziata proprio con lui, e che ora comincia la pars costruens nella quale si definiscono nuovi soggetti. Capisce e si allinea. Nello stesso tempo mantiene la sua cifra originale e la potenzia. Scioglie l'incertezza tra un solitario protagonismo, quello che durante la campagna elettorale gli ha consentito un'imprevedibile rimonta, e il vecchio impianto di alleanze. Ha scelto di fare il leader della gente. Ha scelto la via del populismo. Tutto è scavalcato in un rapporto assoluto tra il leader e il popolo, è l'unica alleanza riconosciuta».

Ma Berlusconi sancisce anche la fine del bipolarismo.
«È evidente che un sistema politico non si cancella con un decreto, neppure se ad emanarlo è uno dei principali inventori del sistema medesimo. Ma il fatto che proprio Berlusconi oggi ne sanzioni la fine è davvero il segno del fallimento più totale di questa lunga fase di transizione».
Saluta con soddisfazione questa ammissione?
«Constato che è così. Non vado oltre perché, come nell'Angelus Novus, mentre si può andare verso il futuro, non si può non vedere il cumulo di macerie che ci sta alle spalle. È franata l'idea del revisionismo della Costituzione, che si voleva mettere in discussione dalle fondamenta. Ed è fallita la concezione del sistema maggioritario e delle alleanze coatte. C'è stata al contrario una frammentazione delle forze in grado di alterare la dialettica politica. Il rischio è tornare al Parlamento di Giolitti e al trasformismo».
Colloca Lamberto Dini in questo quadro?
«Il mio ruolo di presidente della Camera mi impedisce di dare giudizi specifici. Posso dire che nel tempo presente non c'è alternativa al far fuoco con la legna che si ha».
Il governo Prodi deve andare avanti?
«La maggioranza deve trovare la forza di proseguire. Bisogna accelerare lo sblocco del sistema e uscire dalla prigione delle alleanze coatte».
La via d'uscita è il sistema proporzionale?
«Sì. Bisogna restituire ai partiti l'onere e l'onore di essere i protagonisti della vita politica. È l'alfa e l'omega della partecipazione democratica. Questo è il punto dirimente senza il quale non c'è un'uscita virtuosa dalla crisi. Altrimenti si passa dalle alleanze coatte alla tentazione del fare da solo».
Di nuovo Berlusconi?
«Sì, ma non è l'unico».
Si riferisce anche al Pd e a Veltroni?
«Non vorrei attribuire una tentazione esplicita. Certo, il populismo non è unicamente di destra, non c'è solo il populismo hard di Berlusconi ma anche quello dolce di centrosinistra che si concentra sul fenomeno di opinione piuttosto che sul radicamento nella società e sulla individuazione dei soggetti di riferimento».
Un rischio che intravede nel Pd?
«Non è obbligatorio ma c'è».

Lei invece vuole rimettere i partiti con i loro programmi e il sistema delle alleanze al centro delle scena.
«Sì. E se non ci riusciamo il rischio è quello di un logoramento simile alla quarta repubblica francese. Un impantanamento senza soluzione organica che dà luogo ad un aggravarsi della crisi in attesa del colpo di maglio».
In attesa di un De Gaulle italiano?
«No, perché non è nelle corde del Paese e perché non c'è De Gaulle. Se devo materializzare questa deriva non penso ad una soluzione autoritaria ma tecnocratica, dei poteri forti».
Paventa Draghi, Monti o Montezemolo a Palazzo Chigi?
«Lasciamo stare il governatore della Banca d'Italia. I nomi possono essere molti. Questa soluzione non è alle porte ma se la crisi continua e la politica declina, declina, declina, poi arriva qualcosa che la mette fuori anche senza bisogno di colpi di Stato».
E la proposta di Veltroni di riforma del sistema elettorale?
«Tutto ciò che ci fa uscire da una condizione di impotenza va apprezzato. Rimarco con favore le dichiarazioni di Veltroni sul passaggio al proporzionale e sul no al premio di maggioranza. Da partigiano del modello tedesco, penso che si debba fare presto, con un doppio canale, quello parlamentare e quello del confronto tra le forze politiche».
Ma anche Berlusconi si dice convertito al sistema tedesco. Può essere un compagno di strada?
«Nelle riforme istituzionali non valgono i confini tra maggioranza e opposizione. Ogni forza politica presente in Parlamento va considerata per le proposte che avanza e, con la dichiarazione di Berlusconi, l'opzione già prevalente per il sistema tedesco si rafforza notevolmente».
Veltroni deve trattare con Berlusconi?
«No, no, sarebbe un errore. La trattativa è una via sbagliata perché individua degli azionisti di maggioranza. E invece serve il concerto di tutte le forze, senza che nessuno abbia il diritto di veto e senza entrare in collisione con il percorso parlamentare».
Berlusconi dice: facciamo la riforma purché sia chiaro che alla fine si vota.
«Bisogna separare la sorte del governo da quella delle riforme istituzionali, perché l'una riguarda la maggioranza e l'altra tutto il Parlamento».
Ma il percorso resta minato. Che succederà sul Welfare, con Dini che tira da una parte e Rifondazione dall'altra?
«Quello che è successo per la Finanziaria può valere anche per altri temi. Pensare di uscire da un quadro di incertezza con un sistema politico che l'incertezza l'ha introdotta è velleitario e pericoloso».
Ma se l'incidente c'è e Prodi cade?
«La soluzione è un governo istituzionale che faccia la riforma elettorale. Noi abbiamo un presidente della Repubblica che svolge il suo ruolo in maniera eccellente e che è una garanzia per il Paese, possiamo contare sulla sua cultura democratica e sulla sua autorevolezza. Saranno sue scelte, ma ha già detto in più occasioni che non gli pare convincente andare a votare con questa sistema».
Governo di larghe intese?
«Nemmeno per sogno. Perché mai? Le larghe intese o anche un governo tecnico sono soluzioni politiche. Il governo istituzionale è un'altra cosa».
Però il presidente del Senato Franco Marini si è tirato fuori.
«Non voglio andare oltre in questa discussione. Diventa un'ulteriore destabilizzazione della politica. Abbiamo un governo in carica e penso che debba durare».
Ma è stato lei stesso a dire che il governo è malato.
«Nessuno può pensare che dopo un anno e mezzo di questa esperienza possa esserci un colpo d'ala fino a configurare una sorta di potente governo della grande riforma. Ciò potrebbe venire solo da un nuovo sistema politico e dalla rifondazione a sinistra di nuovi grandi soggetti. Questo governo deve affrontare i problemi quotidiani, pur con la capacità di interventi importanti».
Eppure Prodi nella sua intervista a «Repubblica » ha parlato proprio di grandi programmi.
«Se ce la fa, meglio. È giusto che il capo del governo abbia l'ottimismo della volontà. Io, per realismo, dico che una compagine così eterogenea determina un'esigenza di tessitura. Un compromesso dinamico che non deve essere considerato un'ipotesi minimalista. Certo, un miglioramento del rapporto tra il governo e il Paese è necessario, a partire dalla capacità di affrontare le grandi questioni sociali».
Ma se la deriva non si arresta, lei non avrebbe la tentazione di aprire la crisi da sinistra prima di una caduta da destra?
«Insisto, non sono protagonista di questa vicenda politica. Tuttavia questa ipotesi di una caduta da sinistra non la vedo e non l'ho mai vista».
Quindi andate avanti aiutando il malato con i brodini.
«Non è male. Se poi riusciamo a metterci anche qualche pezzo di carne, meglio».


Marco Cianca, Corriere della Sera, 20 novembre 2007

domenica 18 novembre 2007

LE VITE DEGLI ALTRI (E LA NOSTRA)


L’ITALIA HA IL MONDO IN CASA. QUANTO NE DIVENTERÀ DI CASA?

Dalla risposta dipende il nostro futuro. Non un vago avvenire, ma la vita di tutti noi, italiani e stranieri che popolano questo paese. Un domani di cui l’oggi è pregno. Sapremo organizzare la convivenza con gli immigrati, armonizzandola nel contesto nazionale? Potremo scernere il grano dal loglio, gli amici dai nemici, o dovremo solo subire scelte, lenire tragedie altrui? L’incrocio fra persone, storie e culture diverse produrrà un’Italia felicemente meticcia in un’Europa emancipata dal mito spagnolesco della limpieza de sangre? Oppure italiani e stranieri sono condannati ad asserragliarsi in domini separati, vegliati da fortificazioni non solo metaforiche, prodotto delle reciproche paure? Possiamo/vogliamo vivere da separati in Italia?
Perché degli stranieri abbiamo insieme bisogno e timore.
Due termini meno contraddittori di quanto appaia.
Eppure ai numeri non possiamo rinunciare, se presi cum grano salis.
Su scala mondiale l’Italia è ormai seconda solo agli Stati Uniti quanto ad attrazione di immigrati; in proporzione agli abitanti siamo diventati leader (XVI Rapporto sull'immigrazione 2006).
Davvero uno shock ricordando che tra metà Ottocento e metà Novecento siamo stati il paese di emigrazione numero uno in Europa, come testimoniano i 60 milioni di oriundi e i 3 o 4 milioni di nostri concittadini sparsi fra Americhe e Australia.
Oggi da noi vivono o sopravvivono, secondo le stime della Caritas, oltre 3 milioni e mezzo di immigrati, tra cui si stimano circa 6-800 mila clandestini. I regolari incidono per il 5,2% sul totale dei residenti in Italia, compresi gli irregolari siamo intorno al 6%. Insieme alla Spagna, ci avviamo a raggiungere le nazioni europee di radicata immigrazione, come Germania, Francia e Gran Bretagna. La forbice fra calo demografico, flusso e riproduzione di allogeni sembra destinarci in un futuro non lontanissimo al rango di primo paese europeo per numero di immigrati.
Formidabile testacoda: da campioni continentali dell’emigrazione a leader dell’immigrazione, nell’arco di un secolo.
L’Italia è paradigma ed epicentro del declino geopolitico, demografico ed economico europeo, avviato con le due guerre mondiali ma tuttora in corso. Se il nostro continente ospitava nel 1913 il 28% della popolazione mondiale, nel 2000 eravamo al 13% e nel 2050 rischiamo di non superare il 7%.
In prospettiva storica, siamo dunque una nazione calante in un continente illuminato di luce occidua. Eppure restiamo uno dei paesi più ricchi al mondo, una meta alla moda per milioni di stranieri. Non solo turisti, ma uomini e donne che pensano di poter aspirare qui da noi a una vita migliore. Se non è troppo tardi, il riscatto dell’Italia verterà sulla leva migratoria come risorsa nazionale. Certo senza immigrati il declino demografico ed economico del nostro paese avrebbe già assunto il profilo del crollo.
La conoscenza del fenomeno migratorio è il punto di partenza per favorire la convivenza e persino un certo grado di integrazione fra italiani di ceppo e new entries. Sembra ovvio, ma non lo è affatto. L’aria del tempo è tutt’altra. Viviamo uno dei ricorrenti «treni di paura» che percorrono l’Occidente. Timore del «diverso», che induce riflessi pavloviani e blocca financo la curiosità per chi viene da fuori. Del quale sappiamo poco. Ora, qualsiasi approccio si voglia privilegiare, compreso il rigetto dell’immigrato manu militari, non può prescindere dalla fredda analisi della questione.
Proviamo a sistemare quel poco che sappiamo in uno scenario del caso italiano. Ne emergeranno alcuni punti fermi e qualche linea di tendenza.
1) I crescenti flussi migratori incrociano l’intero territorio nazionale, con una marcata concentrazione al Nord (59,5%, contro il 27% del Centro e il 13,5% del Sud). Roma e Milano ospitano da sole più di uno straniero su cinque, ma la tendenza è a sparpagliarsi fuori delle maggiori città. Le provenienze sono quasi universali, con un terzo originato dai primi tre paesi in graduatoria: Romania, Albania e Marocco (carta a colori 2). Ogni 10 immigrati, 5 sono europei (soprattutto dell’Est), 2 africani, 2 asiatici e 1 americano. Il 49,1% sono cristiani, seguiti da un milione di musulmani (33,2%). In prevalenza arrivano giovani: il 70% degli immigrati ha fra i 15 e i 44 anni.
2) L’Italia è non solo paese di transito verso altri Stati europei, ma meta di residenza. Il 60% degli immigrati pensa di restare con noi, anche perché l’80% considera di vivere qui meglio che nel paese di origine.
3) I clandestini (oltre mezzo milione) sono per il 64% overstayers – persone che entrano regolarmente salvo restare una volta scaduto il permesso – per il 23% hanno violato di nascosto le frontiere, il restante 13% è sbarcato sulle coste. Le principali direttrici di provenienza sono i Balcani e (molto meno) l’Africa settentrionale. Paradossalmente, i nostri media enfatizzano l’emergenza mediterranea, mentre trascurano la filiera dell’Est, assai corposa e soprattutto coincidente con le rotte dei traffici di droga in partenza dall’Asia centrale.
4) L’Italia detiene il primato europeo di irregolari, in termini assoluti e relativi. In buona parte restano disoccupati. Molti alimentano l’economia «informale», contribuendo a disegnare segmenti etnici nel mercato del lavoro (muratori romeni, ristoratori cinesi, prostitute nigeriane eccetera). Mafie etniche – in cooperazione fra loro, raramente con le nostre – gestiscono il traffico di esseri umani dalla partenza all’approdo in Italia.
Esiste un nesso fortissimo fra clandestinità, ghettizzazione e criminalità: quasi tutti gli stranieri che finiscono nelle nostre carceri sono irregolari.
Ci muoviamo lungo un sentiero stretto. L’umore pubblico può volgere rapidamente al peggio. La minaccia più grave è il risveglio delle cellule terroristiche dormienti, incistate nelle comunità islamiche, soprattutto maghrebine. Per i jihadisti l’Italia resta un’importante base logistica, che può facilmente trasformarsi in obiettivo di attentati. Il sogno del nostro governo di produrre un «islam italiano», centrato sulla Consulta islamica, è fallito. E nessuno sa come la gente potrebbe reagire a un attacco terroristico di primo grado. Da cui forse scaturirebbe una guerra fredda fra italiani e immigrati musulmani, o addirittura rappresaglie «spontanee» a sfondo razzistico. Certo l’intreccio fra ingenuo «buonismo» e allarmismo emergenziale produce insicurezza e apre la strada agli imprenditori politici dell’odio razziale.
Più difficile quantificare e qualificare i sentimenti altrui verso di noi.
Il miglior metro è la tendenza dei flussi, in continuo aumento: se vengono qui, vuol dire che non ci stanno poi male. La relativa prossimità ai paesi di origine spiega molto, ma non tutto. In Italia indigeni e allogeni confliggono meno che nei paesi di immigrazione storica.
Però a Roma come a Milano, a Napoli come a Torino, ma anche in provincia e nelle campagne, si stanno coagulando ghetti etnici gestiti da organizzazioni criminali, in cui capibastone stranieri sfruttano i connazionali clandestini senza che del nostro Stato si scorga l’ombra. E in cui gli italiani diventano stranieri.
La rivolta nella Chinatown milanese è più di un campanello di allarme: una comunità autosufficiente, tendenzialmente appartata, tiene in scacco le autorità italiane nel cuore di una nostra metropoli e accusa la polizia di aggressione premeditata: «Siamo come le erbacce», ha scritto un anonimo cinese di Milano, «ci diffondiamo con rapidità e le piante più deboli (gli italiani) si sentono in pericolo. Così preferiscono attaccarci».


26 luglio 2007, tratto da LIMES 4/07 "Il mondo in casa".