domenica 18 novembre 2007

LE VITE DEGLI ALTRI (E LA NOSTRA)


L’ITALIA HA IL MONDO IN CASA. QUANTO NE DIVENTERÀ DI CASA?

Dalla risposta dipende il nostro futuro. Non un vago avvenire, ma la vita di tutti noi, italiani e stranieri che popolano questo paese. Un domani di cui l’oggi è pregno. Sapremo organizzare la convivenza con gli immigrati, armonizzandola nel contesto nazionale? Potremo scernere il grano dal loglio, gli amici dai nemici, o dovremo solo subire scelte, lenire tragedie altrui? L’incrocio fra persone, storie e culture diverse produrrà un’Italia felicemente meticcia in un’Europa emancipata dal mito spagnolesco della limpieza de sangre? Oppure italiani e stranieri sono condannati ad asserragliarsi in domini separati, vegliati da fortificazioni non solo metaforiche, prodotto delle reciproche paure? Possiamo/vogliamo vivere da separati in Italia?
Perché degli stranieri abbiamo insieme bisogno e timore.
Due termini meno contraddittori di quanto appaia.
Eppure ai numeri non possiamo rinunciare, se presi cum grano salis.
Su scala mondiale l’Italia è ormai seconda solo agli Stati Uniti quanto ad attrazione di immigrati; in proporzione agli abitanti siamo diventati leader (XVI Rapporto sull'immigrazione 2006).
Davvero uno shock ricordando che tra metà Ottocento e metà Novecento siamo stati il paese di emigrazione numero uno in Europa, come testimoniano i 60 milioni di oriundi e i 3 o 4 milioni di nostri concittadini sparsi fra Americhe e Australia.
Oggi da noi vivono o sopravvivono, secondo le stime della Caritas, oltre 3 milioni e mezzo di immigrati, tra cui si stimano circa 6-800 mila clandestini. I regolari incidono per il 5,2% sul totale dei residenti in Italia, compresi gli irregolari siamo intorno al 6%. Insieme alla Spagna, ci avviamo a raggiungere le nazioni europee di radicata immigrazione, come Germania, Francia e Gran Bretagna. La forbice fra calo demografico, flusso e riproduzione di allogeni sembra destinarci in un futuro non lontanissimo al rango di primo paese europeo per numero di immigrati.
Formidabile testacoda: da campioni continentali dell’emigrazione a leader dell’immigrazione, nell’arco di un secolo.
L’Italia è paradigma ed epicentro del declino geopolitico, demografico ed economico europeo, avviato con le due guerre mondiali ma tuttora in corso. Se il nostro continente ospitava nel 1913 il 28% della popolazione mondiale, nel 2000 eravamo al 13% e nel 2050 rischiamo di non superare il 7%.
In prospettiva storica, siamo dunque una nazione calante in un continente illuminato di luce occidua. Eppure restiamo uno dei paesi più ricchi al mondo, una meta alla moda per milioni di stranieri. Non solo turisti, ma uomini e donne che pensano di poter aspirare qui da noi a una vita migliore. Se non è troppo tardi, il riscatto dell’Italia verterà sulla leva migratoria come risorsa nazionale. Certo senza immigrati il declino demografico ed economico del nostro paese avrebbe già assunto il profilo del crollo.
La conoscenza del fenomeno migratorio è il punto di partenza per favorire la convivenza e persino un certo grado di integrazione fra italiani di ceppo e new entries. Sembra ovvio, ma non lo è affatto. L’aria del tempo è tutt’altra. Viviamo uno dei ricorrenti «treni di paura» che percorrono l’Occidente. Timore del «diverso», che induce riflessi pavloviani e blocca financo la curiosità per chi viene da fuori. Del quale sappiamo poco. Ora, qualsiasi approccio si voglia privilegiare, compreso il rigetto dell’immigrato manu militari, non può prescindere dalla fredda analisi della questione.
Proviamo a sistemare quel poco che sappiamo in uno scenario del caso italiano. Ne emergeranno alcuni punti fermi e qualche linea di tendenza.
1) I crescenti flussi migratori incrociano l’intero territorio nazionale, con una marcata concentrazione al Nord (59,5%, contro il 27% del Centro e il 13,5% del Sud). Roma e Milano ospitano da sole più di uno straniero su cinque, ma la tendenza è a sparpagliarsi fuori delle maggiori città. Le provenienze sono quasi universali, con un terzo originato dai primi tre paesi in graduatoria: Romania, Albania e Marocco (carta a colori 2). Ogni 10 immigrati, 5 sono europei (soprattutto dell’Est), 2 africani, 2 asiatici e 1 americano. Il 49,1% sono cristiani, seguiti da un milione di musulmani (33,2%). In prevalenza arrivano giovani: il 70% degli immigrati ha fra i 15 e i 44 anni.
2) L’Italia è non solo paese di transito verso altri Stati europei, ma meta di residenza. Il 60% degli immigrati pensa di restare con noi, anche perché l’80% considera di vivere qui meglio che nel paese di origine.
3) I clandestini (oltre mezzo milione) sono per il 64% overstayers – persone che entrano regolarmente salvo restare una volta scaduto il permesso – per il 23% hanno violato di nascosto le frontiere, il restante 13% è sbarcato sulle coste. Le principali direttrici di provenienza sono i Balcani e (molto meno) l’Africa settentrionale. Paradossalmente, i nostri media enfatizzano l’emergenza mediterranea, mentre trascurano la filiera dell’Est, assai corposa e soprattutto coincidente con le rotte dei traffici di droga in partenza dall’Asia centrale.
4) L’Italia detiene il primato europeo di irregolari, in termini assoluti e relativi. In buona parte restano disoccupati. Molti alimentano l’economia «informale», contribuendo a disegnare segmenti etnici nel mercato del lavoro (muratori romeni, ristoratori cinesi, prostitute nigeriane eccetera). Mafie etniche – in cooperazione fra loro, raramente con le nostre – gestiscono il traffico di esseri umani dalla partenza all’approdo in Italia.
Esiste un nesso fortissimo fra clandestinità, ghettizzazione e criminalità: quasi tutti gli stranieri che finiscono nelle nostre carceri sono irregolari.
Ci muoviamo lungo un sentiero stretto. L’umore pubblico può volgere rapidamente al peggio. La minaccia più grave è il risveglio delle cellule terroristiche dormienti, incistate nelle comunità islamiche, soprattutto maghrebine. Per i jihadisti l’Italia resta un’importante base logistica, che può facilmente trasformarsi in obiettivo di attentati. Il sogno del nostro governo di produrre un «islam italiano», centrato sulla Consulta islamica, è fallito. E nessuno sa come la gente potrebbe reagire a un attacco terroristico di primo grado. Da cui forse scaturirebbe una guerra fredda fra italiani e immigrati musulmani, o addirittura rappresaglie «spontanee» a sfondo razzistico. Certo l’intreccio fra ingenuo «buonismo» e allarmismo emergenziale produce insicurezza e apre la strada agli imprenditori politici dell’odio razziale.
Più difficile quantificare e qualificare i sentimenti altrui verso di noi.
Il miglior metro è la tendenza dei flussi, in continuo aumento: se vengono qui, vuol dire che non ci stanno poi male. La relativa prossimità ai paesi di origine spiega molto, ma non tutto. In Italia indigeni e allogeni confliggono meno che nei paesi di immigrazione storica.
Però a Roma come a Milano, a Napoli come a Torino, ma anche in provincia e nelle campagne, si stanno coagulando ghetti etnici gestiti da organizzazioni criminali, in cui capibastone stranieri sfruttano i connazionali clandestini senza che del nostro Stato si scorga l’ombra. E in cui gli italiani diventano stranieri.
La rivolta nella Chinatown milanese è più di un campanello di allarme: una comunità autosufficiente, tendenzialmente appartata, tiene in scacco le autorità italiane nel cuore di una nostra metropoli e accusa la polizia di aggressione premeditata: «Siamo come le erbacce», ha scritto un anonimo cinese di Milano, «ci diffondiamo con rapidità e le piante più deboli (gli italiani) si sentono in pericolo. Così preferiscono attaccarci».


26 luglio 2007, tratto da LIMES 4/07 "Il mondo in casa".

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